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Monica Giarrè nasce a Tosi, ai limiti della Foresta Vallombrosana dove trascorre l’ infanzia e l’adolescenza. A Firenze, dopo aver compiuto studi ad indirizzo artistico e musicale, prosegue  la sua formazione (è stata allieva di Giuseppe Leo e di Paolo Frosecchi) avvertendo l’esigenza di perfezionare ed evolvere uno stile che le permetta di esprimere il proprio sentire con un linguaggio rispondente ed incisivo. La prima fase pittorica rivela un prorompente impulso creativo: è come la fuoriuscita di una energia troppo a lungo contenuta che finalmente  esplode scaturendo in vibranti e luminose cromie . Attinge ispirazione dal territorio in cui è nata ed al quale è profondamente legata, invade le  tele del colore e delle sensazioni di  un paesaggio ricco di  boschi, colline, sentieri e sorgenti. Della natura ama dipingere i fiori: attenendosi inizialmente ad un figurativo tradizionale, Monica Giarrè rispetta le forme, al tempo stesso si  avvale di uno stile gioioso ed espressionista che mostra tutta la sua tensione verso una resa istintiva, libera ed emozionale. Da subito si riconosce un raffinato senso estetico che verrà mantenuto anche quando, dopo una continua ed incessante sperimentazione, passerà, attraverso una fase intermedia, dai paesaggi alle nature morte. Avvicendando ai pennelli le spatole, abbandonerà l’aspetto più materico, ma non trascurerà il disegno delineando sempre più gli spazi con precise campiture. Nel continuare a svelare il suo mondo pittorico Monica Giarrè prosegue dunque nell’evoluzione di un linguaggio che si fa più essenziale;  risentendo di influssi cubisti, in particolare della pittura di Braque, la pittrice arriva a creare forme geometriche semplici, sottopone la tela ad una scomposizione, la seziona  e ricompone in una sorta di gioco-studio fino ad ottenere la perfetta riuscita degli incastri. Come i cubisti, non perde mai la riconoscibilità dell’oggetto, semmai, consapevole della finitezza delle cose, tende a  ridurne la presenza concentrando la sua attenzione sulla figura femminile che pone al centro del suo mondo in un intento di “narrazione” autobiografica ed intimista.  I colori vedono insiemi sempre più decisi dalle variazioni timbriche e tonali forti e contrastanti: i bianchi risaltano sullo sfondo nero; il verde, il blù, l’amaranto e l’oro vengono accostati in maniera armonica ed elegante.

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Nell’ultima fase i contenuti appartengono sempre più alla sfera spirituale ed affettiva. Si definisce così il passaggio dalla vanità seppur attraente della forma ad uno spazio puro in cui ritratto psicologico, sentimenti e sensibilità hanno una parte preminente; in questo transito tra l’effimero e la dimensione interiore dell’essere, vengono a collocarsi le tenere figure del cane e del gatto  così care alla pittrice e degli angeli,  preziose presenze sulle  tele.

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Monica Giarrè è pervenuta nell’arco di un lungo percorso di trasformazione ad una forma pittorica di grande forza espressiva ed emozionale, dotata ormai di uno stile riconoscibile   riesce a trasmettere la sua visione dell’ Arte intesa come sintesi di pensiero e ricerca, di astrazione e figurazione, di raffinatezza e luminosità.  Vive e lavora a Firenze nel suo Studio ed abitazione in Corso dei Tintori.

Eleonora d’Aquino

 

Quello che so della pittura di Monica Giarrè

Sono passati quattordici anni da quando ho scritto per la prima volta dei dipinti di Monica Giarrè.

Ecco come avrei voluto iniziare un nuovo testo sul tuo lavoro. Poi ho pensato che fin troppa critica spesso cerca di descrivere ciò che non vede e di giustificare quello che non capisce, e allora, visto che sono davvero tanti anni che seguo il tuo lavoro, credo che sia venuto il momento che siano i dipinti a parlare per me e per te. Io posso solo dirti che le tue campiture serrate sono le gabbie che la vita costruisce intorno a se stessa, sono gli spazi che le tue figure riescono coraggiosamente a conquistarsi. Una figura che si è formata con fatica, dopo studi e delusioni: tu volevi possedere il tratto morbido e rotondo da accademia e invece, chissà come, i segni diventavano duri, ribelli a ogni conciliazione con la realtà. Perché quella che nasceva sulla tela non era la realtà che vedevi, ma quella nascosta, che cresceva dentro di te, finché non hai potuto evitare di riconoscerla e accoglierla nella tua pagina. Ecco, alla fine, quadri preziosi e immobili come pale d’altare, l’ altare quotidiano degli affetti, i dolori, la solitudine e le emozioni che non ti stanchi mai di ringraziare.

Nicola, Firenze 2015

 

GLI ANTENATI

GIARRÈ, Pietro. - Non si conoscono né il luogo né la data di nascita del G., la cui formazione si svolse probabilmente nella bottega di Filippo Giarrè (attivo a Firenze fin dai primi decenni del XVIII secolo) e del figlio di questo, Domenico, che intorno al 1740 lavorò alla decorazione del teatro della Pergola di Firenze. Nella prima metà del secolo era presente nella città toscana anche un Giuseppe Giarrè, di cui è nota l'attività nella decorazione della chiesa di S. Maria a Settignano, dove dipinse, fra le altre cose, finte architetture sulla volta della navata centrale (Moreni). Non si sa, però, se esistessero legami di parentela tra il G. e questi artisti. In base a riscontri stilistici e compositivi è stata anche avanzata l'ipotesi di una formazione del G. presso la bottega di Vincenzo Meucci, pittore attivo alla metà del secolo nella decorazione di chiese e di palazzi fiorentini (Roani Villani, p. 372).

La prima notizia certa sul G. riguarda un suo intervento nell'oratorio di S. Agostino, annesso alla chiesa di S. Angelo di Legnaia (presso Firenze), dove eseguì la cornice "a semplice quadratura", ridipinta nell'Ottocento, dell'affresco (Gloria di s. Agostino e s. Aurelio) realizzato sulla volta da Giovan Domenico Ferretti nel 1759. Tra il 1760 e il 1762, il G. risulta iscritto all'Accademia del disegno di Firenze (Lazzarini, 1990, p. 206). Al suo periodo fiorentino risale la decorazione della sagrestia nella chiesa della Ss. Annunziata, eseguita verso il 1766. Qui il G., su committenza di Raimondo Adami, padre generale dei serviti, ornò la volta e le pareti con finte architetture prospettiche e stucchi bianchi.

Nel 1770 il G. fu chiamato, insieme con un folto gruppo di artisti (tra cui Pasquale Cioffo di Napoli, Angiolo Maria Somazzi di Lugano e Giuseppe Maria Terreni di Livoro), alla certosa di Calci, nei pressi di Pisa, dal priore Giuseppe Alfonso Maggi, che stava promuovendo un articolato intervento di ampliamento e trasformazione del monastero. È stato ipotizzato che il nome del G., definito da Maggi nel Giornale delle fabbriche della Certosa "celebre pittore fiorentino", fosse stato proposto al priore proprio dall'Adami, già professore di teologia dogmatica all'Università di Pisa, visto che i due uomini di chiesa condividevano non solo una forte sensibilità artistica ma anche comuni simpatie gianseniste (Lazzarini, 1994, p. 38).

Tranne alcuni brevi intervalli, il G. lavorò nella certosa fino al 1781. Vi decorò diversi ambienti, spesso in collaborazione con il quadraturista Luigi Pochini di Pisa, seguendo le precise indicazioni iconografiche elaborate dal priore. Nelle tre stanze della foresteria nobile il G. dipinse (1770-72) l'Allegoria del sonno; nella stanza da letto, la Vigilanza; nella stanza d'ingresso, e nella sala principale, le Virtù teologali sulla volta, le Virtù cardinali nei medaglioni angolari e varie figure allegoriche sulle pareti. La decorazione è completata da due ritratti del granduca Pietro Leopoldo di Lorena e di sua moglie Maria Luisa (ibid., p. 62) che, secondo la documentazione riportata da Manghi (1911, p. 146), vennero acquistati nel 1768 da Maggi a Pisa; mentre Villani (1988, p. 379), in base ad alcune ricevute di pagamento, ritiene probabile che il G. li avesse eseguiti ex novo. Il tono celebrativo e mondano della decorazione di questi ambienti dipende dal fatto che essi erano destinati ad accogliere i granduchi di Toscana e, in generale, i visitatori nobili durante i loro frequenti soggiorni nella certosa. Il pittore lavorò anche nella foresteria detta della Madonna, riservata agli ospiti illustri, dove dipinse La donna che addita al viandante la certosa, esplicito omaggio all'ospitalità dei monaci. Il G. proseguì la sua attività nel chiostro priorale (1770-71) con le immagini di S. Bruno e dell'Assunta.

Tra il febbraio e il marzo del 1772 si allontanò da Calci per decorare, con finte architetture e figure allegoriche, due ambienti nel palazzo arcivescovile di Pisa (Manghi, 1911, p. 148).

Ritornato a lavorare nella certosa, dipinse, nel corridoio che collega la foresteria al vestibolo della chiesa, le figure di fondatori e benefattori del convento, posti all'interno di finte nicchie realizzate da Luigi Pochini. Nel 1773 iniziò a dedicarsi alla decorazione dello scalone monumentale: prendendo a modello una stampa appositamente acquistata dal priore Maggi, vi rappresentò sulla volta la Scala di Giacobbe, dove i gradini dipinti proseguono idealmente quelli veri. Tra i molti ambienti decorati dal G. merita di essere menzionato il cosiddetto "corridoio grande" (1772-74), dove affrescò sulla volta un S. Bruno in gloria e sui muri laterali pregevoli brani paesaggistici con edifici moderni, rovine antiche e uccelli, inseriti tra finte architetture. Per la facciata della chiesa della certosa il G. fornì il disegno per tre statue, poi eseguite da Pompeo Franchi e da Diego Iori.

Contemporaneamente all'impegnativa decorazione a Calci, il G. lavorò anche in diverse dimore e ville pisane. Di tale attività rimangono però solo poche tracce: per esempio, le immagini di rovine classiche del palazzo Curini-Galletti di Pisa, a lui riferite sulla base della vicinanza formale con le rappresentazioni della certosa (Rosario).

Tra l'agosto del 1774 e il settembre dell'anno successivo, il G. si trasferì a Buti, nel contado pisano, per decorare la dimora (detta anche villa Medici) di Santi Banti, che, nel 1775, lo ospitava insieme con la moglie Caterina nella sua casa (Lazzarini, 1994, p. 37). Il ciclo degli affreschi di Buti ha un carattere più mondano e libero rispetto alla decorazione della certosa. Lo dimostrano le Scene pastorali nel salone e la stanza con le Allegorie delle arti liberali e meccaniche, con finti stucchi su pareti a fondo rosa monocromo. Qui l'esuberante carattere tardobarocco della pittura decorativa del G. appare più controllato e meno incline a espedienti prospettici e illusionistici, avvicinandosi così alle nuove tendenze classiciste.

Sempre a Buti, il G. decorò le pareti laterali della pieve, ma si tratta purtroppo di un'opera andata perduta in seguito ai lavori di ampliamento del 1901. A lui spetta inoltre la decorazione della chiesa di Montecchio (Madonna della Neve e altre figure, 1774-75).

Dal settembre del 1775 il G. fu di nuovo a Calci, attivo nel refettorio della certosa, dove eseguì un ciclo di episodi conviviali tratti dal Nuovo Testamento e due episodi della vita dei certosini: Cosimo III a pranzo con i certosini e La regina offre il pranzo ai certosini. È stata proposta l'identificazione della regina con la duchessa di Borgogna, Bona d'Artois (Leoncini, p. 328), che si era recata nel 1424 nella certosa di Champmol, o con Caterina de' Medici (Lazzarini, 1993, p. 89). La sontuosa decorazione del refettorio fu completata con finte statue dei dottori della Chiesa e di monaci santi e letterati e, sulla volta, con figurazioni allegoriche allusive alle virtù dei certosini.

Tra il 1776 e il 1781 il G. realizzò gli affreschi nella cappella del capitolo, dove dipinse il Trionfo di s. Gorgonio con lo Spirito Santo nella cupola, e i Quattro Evangelisti nei pennacchi. Nella stessa cappella eseguì una serie di allegorie e una decorazione a finte balaustre con musicisti, considerata dal priore Maggi non adatta alla solennità del luogo e sulla quale intervenne Giuseppe Maria Terreni nel 1793.

L'ultima notizia sul G. riguarda ancora la decorazione della certosa: al 1791 risale, infatti, un affresco da lui dipinto su una parete esterna del convento, oggi perduto, raffigurante S. Ugo vescovo di Grenoble che conduce s. Bruno al luogo della certosa (Manghi, 1911, p. 173).

Non è nota la data di morte del Giarrè.

Il figlio del G., Gaetano, fu attivo a Firenze come disegnatore e incisore. Di lui sono note solo le incisioni di alcuni ritratti (Thieme - Becker). Anche il figlio di Gaetano, Raimondo, risulta attivo come incisore.